L'uomo che vendette la sua pelle
Riflessione politica sul corpo, film sul dramma dei rifugiati, satira sull'arte ed i suoi meccanismi o forse, più semplicemente, una struggente storia d'amore.
Sam Ali (Yahya Mahayni) è un profugo siriano che sopravvive di stenti in Libano. Pur di raggiungere la sua amata Abeer (Dea Liane), che vive in Belgio; permetterà al controverso artista Jeffrey Godefroi (Koen De Bouw), conosciuto grazie alla mercante d’arte Soraya (Monica Bellucci), di tatuarli un Visto Schengen sulla schiena, diventando così una vera e propria opera d’arte vivente.
L’uomo che vendette la sua pelle, il nuovo film della tunisina Kaouther Ben Hania, è un caso da manuale di opera nella quale viene messa tanta, forse troppa, carne al fuoco.
Innanzitutto possiamo leggere il lungometraggio come un’opera politica sul corpo e la sua mercificazione.
In un mondo nel quale la libera circolazione degli uomini è in realtà un miraggio e milioni di profughi e/o di emigranti sono ricacciati indietro da muri più o meno fisici, Sam Ali conquista la libertà di spostarsi e raggiungere l’agognata Europa solo nel momento in cui viene considerato alla stregua di una merce.
Spogliato del suo status di essere umano e “ridotto” ad oggetto da esporre in un museo, Sam Ali finalmente può arrivare in Belgio alla ricerca della donna che ama.
In secondo luogo il protagonista del film è un rifugiato quindi L’uomo che vendette la sua pelle affronta anche questo soggetto, soffermandosi in maniera critica tanto sullo sfruttamento, consapevole, fatto dall’artista Jeffrey Godefroi, il quale usa lo status di Sam Ali a fini scandalistici, quanto sulle manovre di un’associazione di difesa dei diritti dei profughi che appare anch’essa interessata a Sam Ali sono in termini puramente propagandistici e pubblicitari.
Questi due temi, infine, si fondono con una satira feroce sul mondo dell’arte ed i suoi meccanismi.
Kaouther Ben Hania si interroga su quali siano e se ancora esistano limiti etici nell’arte, descritta come un mercato spietato abitato da abili affaristi, stuoli di avvocati e ricchi collezionisti che non si fanno scrupoli ad esporre Sam Ali nella propria casa ad uso e consumo degli invitati.
Purtroppo tutte queste tematiche, molto spesso, non ricevono l’attenzione adeguata e non vengono approfondite tutte come dovrebbero.
L’impressione è che l’idea di fondo del film sia buona per un medio metraggio ma che sulla lunga durata, soprattutto nella parte centrale, mostri la corda.
Insomma, finché il film ci descrive le vicende di Sam Ali quando ancora è profugo, tutto procede a meraviglia, ma nel momento in cui esso diviene opera d’arte, il film corre il rischio di cominciare a girare a vuoto.
In fondo però, L’uomo che vendette la sua pelle, al netto delle varie questioni che mette sul piatto, è soprattutto una struggente storia d’amore; quello è il suo fulcro.
Si potrebbe pensare che Sam Ali sia una vittima del sistema, che rappresenti l’ultima frontiera dello sfruttamento colonialista, che sia a suo modo una versione moderna dello schiavo.
In realtà, man mano che il film avanza, il protagonista mostra un’estrema consapevolezza di sé e del suo piano.
Ben presto è lui a sfruttare le contraddizioni interne al sistema per raggiungere il suo scopo.
Sam Ali, a suo modo, si ribella continuamente al suo ruolo di statua vivente, interloquisce con gli spettatori del museo, sfrutta a suo vantaggio l’interesse mostrato dall’associazione che difende i profughi; finché Sam Ali non mette in scena una sorta di performance provocatoria che gli spiana la strada verso la libertà.
Tutto pur di ricongiungersi ad Abeer che, nel frattempo, pur di fuggire dalla Siria in fiamme, si è sposata con un diplomatico.
L’uomo che vendette la sua pelle, alla fine, racconta la loro storia d’amore e regala al rapporto tra i due alcuni dei suoi momenti più intensi sino al colloquio in carcere che è una delle sequenze d’amore più intense che si siano viste da tempo sullo schermo.
Rimane un ultimo scoglio da superare, conquistare veramente l’agognata libertà.
Sam Ali per farlo dovrà dare vita ad una messa in scena che offre il destro all’ennesimo spunto presente nel film, quello che coinvolge lo sfruttamento dei mass media e della comunicazione in generale da parte dei terroristi di tutto il mondo.
L’ennesimo tema di un film che appare più interessante che bello e sul quale, tuttavia, si torna a riflettere anche molti giorni dopo la visione, il che, di questi tempi, non è poco.
EMILIANO BAGLIO