C'è la Cina, la Germania e poi l'Italia tra i principali acquirenti di combustibili fossili dalla Russia. Secondo il Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), l’Ue ha rappresentato il 61% delle importazioni di fossili, ovvero circa 57 miliardi di euro, dal 24 febbraio al 3 giugno. La Cina avrebbe importato 12,6 miliardi di euro, seguita da Germania (12,1 miliardi) e Italia (7,8 miliardi). Secondo questo grafico, diffuso dai media ucraini, le casse di Mosca avrebbero raccolto dunque oltre 93 miliardi di euro dall'esportazione di combustibili fossili nei primi 100 giorni di guerra in Ucraina.
La guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e si intensifica la battaglia nel Donbass, con i russi ad un passo dalla presa della città di Lugansk. Sono ormai 110 i giorni di conflitto e se non si vede uno spiraglio da un punto di vista diplomatico e umanitario, le cose vanno molto diversamente da quello economico e finanziario.
Mosca dopo 100 giorni di guerra ha già incassato 93 miliardi di euro dalla vendita di combustibili fossili, secondo il nuovo Rapporto del Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita (Crea) con sede in Finlandia.
Il 60% circa delle esportazioni hanno avuto come destinazione i Paesi dell’Unione europea, per circa 57 miliardi di euro di transazioni.
46 miliardi di euro circa sono arrivati dalle vendite di petrolio, 24 miliardi dalle forniture di gas naturale, 13 miliardi dai prodotti petroliferi derivati, 5,1 miliardi di euro dal gas liquido e 4,8 miliardi dal carbone.
L’Italia è il terzo partner commerciale per la Russia, con 8 miliardi di euro di importazioni di combustili fossili, dopo la Germania al secondo posto (12,1 miliardi di euro) e la Cina al primo (12,6 miliardi di euro).
Le sanzioni hanno iniziato a dare qualche risultato, ma molto meno di quanto sperato dai Paesi occidentali e i loro alleati NATO.
Le esportazioni russe di combustibili fossili sono calate del 15% rispetto a gennaio 2022, cioè prima dell’invasione dell’Ucraina. Oltre ad una domanda ridotta, Mosca ha dovuto far fronte anche ad un taglio dei prezzi di fornitura, per cercare di contenere le perdite complessive, tanto che rispetto al periodo pre-bellico le entrate sono state ridotte di 200 milioni di euro al giorno.
A maggio grandi società energetiche come Exxon, Shell, Total, Repsol, Lukoil, Neste e Orlen, hanno continuato ad acquistare combustibili fossili dalla Russia, assieme alle utility Taipower, Chubu Electric Power, TEPCO e centrale termica di Trieste, e alle grandi compagnie dell’industria pesante Nippon Steel, POSCO, Formosa Petrochemical Corporation e JFE Steel.
Paradossalmente, secondo lo studio del CREA, la domanda di energia è così alta che per i russi si è creata un’ulteriore fetta di mercato, anche perché quanto pare India, Francia, Cina, Emirati Arabi e Arabia Saudita hanno incrementato le importazioni.
Francia, Belgio e Olanda si sono accaparrati la maggior parte dei carichi sul mercato spot nel mese di maggio, grazie ai prezzi scontati praticati dai venditori russi.
Nuova Dehli è arrivata ad acquistare il 18% di tutto l’export di petrolio russo nel mondo, mentre non solo l’Europa intera, ma anche gli Stati Uniti, importano greggio sotto la voce “prodotti petroliferi raffinati”, riuscendo ad aggirare le sanzioni.
Altra beffa è rappresentata dall’impiego di grandi navi cisterna europee per trasportare il petrolio russo in giro per il mondo. Nel bimestre aprile-maggio 2022 il 68% del petrolio moscovita è stato traportato su navi di proprietà di società europee, del Regno Unito e della Norvegia, di cui il 43% su petroliere greche.