Scuola. Precari, concorsi, algoritmo, stipendi. Le follie della politica che snobba l'istruzione pubblica. In piazza i "fantasmi della scuola"
ll termine precarietà risuona di bocca in bocca mentre la protesta degli insegnanti che si sono dati appuntamento in piazza dell’Esquilino attraversa Roma.
Convocato dalle varie sigle che compongono il sindacalismo di base, Cobas, Cub Sur, Clap, Usb, e da altre realtà associative del mondo studentesco, il corteo ha attraversato il centro della Capitale concludendosi in piazza della Madonna di Loreto.
La condizione di precarietà è la stessa che accomuna Anna, che si è trasferita dalla Puglia per lavorare come insegnante di sostegno in una scuola media a Torino, Antonio che insegna materie letterarie nella città in cui è nato, Lecce, e Daniela, che è una tecnica di laboratorio ed è impiegata in una scuola media a Palestrina, un comune che si trova a sud di Roma poco oltre il raccordo anulare.
Sono il corpo vivo della scuola italiana e, a conti fatti, sono 250.000 quest’anno, cioè uno su quattro, i lavoratori e le lavoratrici che non hanno un impiego stabile, una pratica per cui, proprio qualche giorno fa, la Commissione europea ha deciso di deferire l'Italia alla Corte di giustizia dell'Unione europea per l’utilizzo abusivo e reiterato di contratti a tempo determinato e per le condizioni di lavoro discriminatorie previste nel nostro sistema scolastico. Non solo.
«Le condizioni di reclutamento dei precari nella scuola sono diventate insostenibili, sia da un punto di vista materiale che di dignità personale. Le vite di centinaia di migliaia di persone sono ogni anno nelle mani di un algoritmo che funziona in modo arbitrario e non tiene conto delle uniche variabili necessarie per insegnare a scuola: l’esperienza, la competenza, l’empatia e la continuità», dice Giuliana Visco, insegnante in una scuola di Roma ed attivista delle Clap, acronimo di Camere del lavoro autonomo e precario.
Infatti, spiega Visco: «Ho vinto l’ultimo concorso “Pnrr”, insegno da 12 anni, ho due figli piccoli e, come in un gioco dell’oca non ho ancora vinto davvero, ma sto combattendo con l’ultima assurdità, i nuovi percorsi abilitanti. Spero che questa piazza sia l’inizio di una mobilitazione permanente che metta a nudo le nostre condizioni di lavoro e di vita nella scuola pubblica. Altro che passione, dedizione e tutta la retorica patriarcale di missione, chiamiamo le cose con i loro nomi, sfruttamento e mercificazione del sapere», conclude.
Ma cos’ è il concorso Pnrr? E cosa sono i percorsi abilitanti? Dopo il concorso ordinario bandito nel 2020, altri posti in ruolo sono stati messi a disposizione con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Peccato, però, che il ministero dell’Istruzione li abbia vincolati alla frequentazione di corsi a numero chiuso da frequentare in università pubbliche o private e che costano più o meno 2.000 euro.
I concorsi Pnrr sono due, ed entro la fine dell’anno, garantiranno l’entrata in servizio di altri 20.000 docenti, a una condizione: aver frequentato corsi che non aggiungono nulla alla loro preparazione, sostengono gli insegnanti. «È una sorta di tassa sulla stabilizzazione, ho il contratto che scade il 31 agosto e, anche se ho vinto il concorso, non potrò mai essere stabilizzato se non pago dei crediti in pedagogia, che peraltro ho già conseguito negli anni scorsi», fa notare Maurizio, di “Educazione senza prezzo”, una delle realtà che ha organizzato la protesta.
La scuola italiana è diventata così una fabbrica di precarietà, basti pensare che con questo meccanismo gli idonei del 2020 si troveranno in coda a due concorsi svolti nel giro di sei mesi, senza nessuna possibilità di essere stabilizzati, mentre un algoritmo continuerà a decidere delle loro vite.
«Ho lavorato per alcuni anni nel circuito delle scuole paritarie, con contratti di collaborazione assolutamente illegittimi, e oggi lavoro in una scuola pubblica, ma la mia condizione di precarietà non è cambiata», racconta Daniela Galiè, che insegna materie letterarie in due scuole professionali di Roma ed anche lei è una sindacalista delle Clap.
«Sono ottocentomila oggi in Italia gli insegnanti, tra scuole pubbliche e paritarie, che hanno un contratto a termine. Questa gestione della forza di lavoro è stata automatizzata da un sistema creato dalla ex ministra Azzolina, che è quello dell’algoritmo, che incrocia le disponibilità delle varie scuole con le preferenze dei docenti, ma questa “offerta” non è resa pubblica, avviene al buio, appunto. Anche io ho dovuto effettuare le mie scelte al buio, e proprio questo sistema di reclutamento non fa altro che aumentare i docenti precari, passati dal 12,5 al 24 per cento in pochissimi anni», conclude.
UN APPROFONDIMENTO
Valditara: “Ce lo chiede l’Europa”; “Non è vero” risponde la Commissione europea a un giovane docente precario che chiede spiegazioni. La scuola di oggi riparte da qui. La figuraccia della sconfessione si aggiunge ai disagi generati dalla girandola di docenti e il caos delle cattedre; polemiche e ricorsi anche sulle nomine in ruolo che danno serenità ai docenti e possono garantire a famiglie e istituzioni quella continuità che da troppi anni è venuta meno, peggiorando la qualità del servizio offerto dalla scuola.
Nella scuola i docenti si reclutano mediante concorso, come stabilisce l’art. 97 della Costituzione: “[…] Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.” Dunque nel reclutamento degli insegnanti il “merito” si traduce nel superamento di una procedura concorsuale e del periodo di prova successivo. Fino agli anni ‘80 la cadenza dei concorsi è stata biennale, chi non lo superava affrontava altri due anni di precariato e lavoretti in attesa di riprovarci. Ma aveva la certezza che avrebbe avuto un’altra occasione. Poi è cominciata la stagione delle leggi e leggine per immettere in ruolo precari diventati “storici” perché avevano accumulato tanti anni di lavoro, ma un concorso non l’avevano mai passato. Per conseguenza, i concorsi hanno cominciato a perdere la cadenza “naturale” fino a diventare eventi quasi eccezionali. La situazione ha generato altro precariato e ha concorso alla fuga dalla scuola di tanti giovani laureati con belle idee e speranze deluse. Le graduatorie degli “aventi diritto” si sono sovrapposte le une alle altre in una babele che ha prodotto guasti e ingiustizie.
Gli ultimi concorsi completati – uno riservato a precari con almeno tre anni di servizio, l’altro aperto a tutti – è stato bandito nel 2020, concluso nel 2023 con la pubblicazione delle Graduatorie di Merito: sono a scorrimento. Chi è in lista, cioè è idoneo e abilitato all’insegnamento (perché ha superato le prove del concorso ed è in possesso di tutti i titoli di studio necessari) sa che prima o poi gli/le toccherà; fatto salvo il calo demografico: i posti diminuiscono perché la denatalità comincia a far sentire i suoi pesanti effetti anche nelle scuole: l’anno scorso il numero degli studenti è sceso sotto gli 8 milioni, accompagnando il declino delle nascite. In tutti i casi il Ministero ha stabilito come obiettivo 45.124 assunzioni entro la fine del 2024.
Provo a spiegarlo in breve: dato che l’Ue ha denunciato l’Italia dinanzi alla Corte di Giustizia europea per le politiche generatrici di precariato, con l’occasione del Pnrr il Ministero ha previsto nuovi concorsi per stabilizzare gli insegnanti precari non vincitori dei concorsi precedenti e reclutarne di nuovi a tempo indeterminato. Le procedure sono alla conclusione e già sono pubblicate quasi tutte le graduatorie. Questi nuovi concorsi non sono abilitanti: per ottenere l’abilitazione i vincitori – come peraltro tutti coloro che vorranno accedere alla carriera scolastica – devono sostenere corsi aggiuntivi e pagarseli a caro prezzo: proteste e reclami, ricorsi, avvocati e tribunali al lavoro. Però il Ministro ha attribuito loro la precedenza assoluta nell’assegnazione delle 45.124 cattedre vacanti e delle altre 30mila circa previste per il prossimo anno scolastico. Così ha scavalcato gli abilitati nelle graduatorie dei concorsi 2020, in attesa: altri ricorsi, carte bollate. Insomma, le solite storie sulla pelle di persone che lavorano – spesso anche bene – senza alcuna garanzia di serenità, stabilità e riconoscimento.
Sembrano questioni certamente di forte impatto su chi le subisce, ma dalle conseguenze irrilevanti sull’istituzione scolastica. Niente di più falso: la scuola ha bisogno di certezze, di regole a cui tutti debbono attenersi, di decisioni che rispettino le leggi e non sfidino la logica. Il “nomadismo docente” uccide la continuità, mortifica la professionalità, limita la libertà di insegnamento, uno dei fondamenti della democrazia.