25 Marzo 2017. A Roma l'Europa si impegna per ridare slancio all'Unione. Integrazione, diritti, lavoro più forti della finanza e delle banche
Il Ratto di Europa di Rubens
Cosa rimane oggi dello spirito dei Trattati di Roma? L’Europa di allora e l’Italia di quegli anni erano luoghi nei quali erano ancora visibili le ferite del massacro della Seconda guerra mondiale, nonostante ciò quei paesi e quei popoli erano ricchi di speranza, di uno slancio ideale tenace, di un modo nuovo di guardare al futuro delle società e della politica.
Quello spirito oggi sembra fuggito via dalle pianure, dalle città, dai villaggi, perso tra le fabbriche e gli uffici del continente che primo ha avuto consapevolezza di essere qualcosa in più di un “semplice” luogo geografico.
L’Europa è una condizione ideale, ha detto Zygmunt Bauman sulla scorta di Benedetto Croce, di Hegel e di Kant. L’Europa dei trattati di Roma e le sue classi dirigenti ne erano ben consapevoli, ragione per la quale con fatica misero da parte secoli di inimicizie, diffidenze e fecero tutto il possibile, a soli 12 anni dal tragico 1945 quando le macerie ricoprivano metà del suolo europeo, per cominciare a dialogare e per trovare idee e accordi comuni. Scelsero di partire dall’economia, dall’energia per innescare la macchina produttiva continentale - con i precedenti trattati della CECA del 1953 - dal commercio, abolendo i dazi doganali. Ma l’obiettivo era preminentemente politico: un’idea mai sopita e mai fuggita dai campi di battaglia dell’Europa, dare forma e concretezza all’idea di unità.
Lo spirito dei Trattati nasceva dalla consapevolezza che l’Europa è comunità, spesso nelle controversie, quasi sempre nelle guerre, nei dibattiti teologici o negli scontri fra le case regnanti. Gli ispiratori dei Trattati, da Spinelli a Eugenio Colorni fino a Rosmini e Mazzini, sapevano bene che se noi europei ci sentiamo, in qualche modo, vicini è perché abbiamo sempre avuto un orizzonte comune.
Sacro Romano Impero e feudalesimo, Cristianità e Rinascimento, Riforma e Controriforma, Illuminismo, rivoluzioni, democrazia e progresso economico e sociale per duemila anni hanno connesso i popoli europei, i quali restano, nella tragicità come nello splendore che la storia umana realizza alternativamente, gli uni dipendenti dagli altri. Talvolta gli uni riconoscenti agli altri e anche se acerrimi nemici per difendere interessi nazionali o imperi d’oltre mare, inevitabilmente gli uni responsabili del benessere degli altri.
Con i trattati firmati il 25 marzo 1957 nell’austera sala degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio, si attestò prima di tutto la pax solenne che doveva sancire la ripartenza di un modo nuovo di convivere dei popoli europei, non più nella strenua difesa delle frontiere e degli esclusivi interessi nazionali ma nella permeabilità di quelle frontiere per secoli grondanti di sangue e nella condivisione di interessi reciproci.
Oggi gli scenari sono certamente differenti. La contingenza ci parla di ondate immigratorie extraeuropee, del terrorismo, di una crisi economica dura. Ma anche se i muri del Novecento e quelli che qualcuno ancora invoca possono aver diviso il nostro continente, senza pregiudizi di alcun genere, è facile rendersi conto che l’Europa da sempre ha rappresentato la possibilità di spostarsi per migliaia di uomini, una libertà sancita anche dal diritto internazionale: il diritto di emigrare, di andare a lavorare e cercarsi un futuro migliore là dove non si è nati, dove non si conosce la lingua, ma dove la possibilità della felicità è a portata di mano. Il diritto alla felicità, difeso dalla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo dell’Onu, va di pari passo con il diritto alla libera circolazione degli esseri umani, delle idee e delle merci. L'Europa è sempre stata la terra della libertà di movimento, ben prima dell'Unione.
Diritti oggi sanciti nelle costituzioni nazionali e nei trattati di Lisbona, il più recente orizzonte dell’Unione europea.
Un diritto che noi cittadini dobbiamo difendere a denti stretti contro le spinte centrifughe di politiche demagogiche e miopi, contro l'ingerenza di potenti vicini, vedi la Russia e contro quell’amministrazione Trump che giudica, brutalmente, i diritti come privilegi.
L’Europa è il Mediterraneo, il mare della civiltà; l’Europa è l’Oceano Atlantico, il mare delle scoperte, l’Europa è i fiumi che hanno per secoli unito le zone continentali, l’Europa è le numerose migrazioni interne, l’Europa è la condivisione del patrimonio scientifico e tecnologico. Dove è nata la Scienza moderna? Dove l’idea di sviluppo e di implementazione delle tecnologie? L'Europa è la politica. Dove è nata la democrazia? E se è vero che oggi l’Europa è 500 milioni di persone che non sono costrette a doversi combattere per un regno, mai successo nella nostra storia continentale, lo si deve allo spirito di quei trattati.
L’Europa è la storia dell’Arte, di come essa abbia evoluto la visione e la consapevolezza che il genere umano ha di sé stesso.
Consapevoli di questa storia, di queste realtà, oggi i popoli europei dovrebbero legittimamente reclamare e realizzare un nuovo slancio ideale, contro le storture burocratiche che purtroppo vengono sempre più spesso proprio dalle sedi istituzionali dell’Unione. Contro la finanziarizzazione di quelle istituzioni. Contro i rigurgiti nazionalistici che soltanto tragedie hanno prodotto, contro, il tecnocratismo delle classi dirigenti, contro l’espropriazione della sovranità, contro la sconfitta della politica a vantaggio dell’economia.
I sondaggi rilevano che la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee è ai minimi termini. Le celebrazioni dei sessanta anni che si svolgono qui a Roma, possono servire a rinfocolare lo slancio ideale e allo stesso tempo un'azione concreta di cui la nostra Europa ha bisogno per invertire la rotta e modificare la percezione negativa che sembra avere la meglio in tema di Europa.
La crisi economica che attanaglia il continente da quasi dieci anni è la prima causa di questa sfiducia. Politici irresponsabili soffiano sul fuoco delle paure di quelli che perdono il posto di lavoro, di chi non ha più welfare, di chi pensa che un milione e mezzo di immigrati e rifugiati possa destabilizzare le società di 28 paesi, 27 dopo la Brexit. Politici che poi non si fanno scrupolo di ricevere da quelle stesse istituzioni che vituperano, migliaia di euro.
Combattere la disoccupazione, innovare in tecnologie e formazione, diffondere uno spirito ottimistico e positivo verso gli inevitabili cambiamenti a cui siamo chiamati a rispondere, questo è il compito e il dovere delle classi dirigenti. La politica, quella che si schiera come europeista, dovrà capirlo al più presto.
Decisive a detta di tutti gli osservatori potrebbero essere le elezioni presidenziali in Francia dove Marine Le Pen ha già promesso in caso di vittoria che la Francia uscirà dall’Unione, e le elezioni tedesche che rappresenteranno fedelmente nei numeri quanto il paese oggi più europeista potrà rappresentare ancora la locomotiva d’Europa.
A Roma i 27 Paesi presenti firmeranno di nuovo, come si fa negli anniversari di matrimonio quando si rinnovano le promesse, quei patti di sessant’anni fa per impegnarsi a ridare vigore e slancio all’idealismo e allo spirito europeo che ha dato pace, prosperità, diritti ad un continente intero. Ciò, anche i più acerrimi antieuropeisti, possono contestarlo. L’impegno degli Stati, della politica, come dei singoli cittadini è quello della responsabilità, della consapevolezza delle enormi sfide che ci attendono in un mondo smarrito fra insicurezze e paure. A questo incontro stati, politici e cittadini arrivano divisi. Ognuno con una singola idea di Europa. Occorre ribaltare questa percezione.
Senza Europa unita, senza diritti e i doveri condivisi, senza passione per un’idea di vita in comune per mezzo miliardo di persone, sarà molto difficile, se non improbabile, un futuro diverso, migliore del presente che viviamo.