I morti non muoiono.
Jim Jarmusch utilizza i morti viventi per attaccare l’America di Trump ma si dimentica il film a casa.
Gli zombi di Jim Jarmusch sono figli (o pronipoti) di quelli dell’omonimo film del 1978 di George A. Romero dal quale hanno ereditato la coazione a ripetere le azioni che compivano da vivi. Quelli del ’78 convergevano in massa verso il centro commerciale, mentre questi, una volta risvegliati, bramano del caffè (come nel caso di Iggy Pop) o vagano per la notte incollati al cellulare alla ricerca disperata del wi-fi in una delle migliori scene del film che è anche una delle tante intuizioni sprecate.
La metafora politica è chiarissima, questi morti viventi sono il corrispettivo dell’elettore medio di Trump, incarnato alla perfezione da Steve Buscemi che se ne va in giro con un cappello con scritto “Make America white again” e si lamenta del caffè troppo nero accanto ad un basito Danny Glover.
Il mondo ritratto da Jarmusch è, letteralmente, fuori asse, non a caso i morti ritornano in vita proprio a causa di uno spostamento dell’asse terrestre provocata dallo sfruttamento delle risorse dei poli, e non basta abitare in una città che si chiama Centerville per rimettere le cose a posto come imparerà a proprie spese la popolazione locale a partire dai tre agenti di polizia (Bill Murray, Adam Driver e Chloë Sevigny).
Dunque siamo tutti già dei morti viventi, l’unica salvezza è rappresentata dai tre giovani (due ragazze ed un ragazzo) detenuti nel carcere minorile, emblema forse della ribellione all’ordine costituito, o da Eremita Bon (Tom Waits) che da anni ha rifiutato la civiltà ed osserva da lontano, sardonico e forse anche divertito, l’imminente apocalisse.
Proprio a lui, forse poco convinto dei suoi mezzi, il regista affida la morale del film qualora qualcuno non avesse capito il messaggio del film.
Il problema è che però, attorno all’evidente intento politico della pellicola, quello che manca è tutto il resto col risultato che le caratteristiche che da sempre contrassegnano lo stile di Jarmusch qui diventano altrettanti vizi.
Così il ritmo rallentato tipico delle sue pellicole qui diventa catatonico e l’humor stralunato non colpisce nel segno.
Lo stesso carattere episodico, tipico dell’autore, qui sembra piuttosto assomigliare ad una sorta di dichiarazione di sconfitta, come se Jarmusch non fosse stato capace di gestire il gran numero di personaggi messi in campo e all’improvviso si ricordasse di loro e che bisogna pure raccontare che fine faranno.
Personaggi che, dal canto loro, sono pallide macchiette prive di qualsiasi spessore.
Ne esce fuori un film che spreca anche le buone intuizioni di cui pure è pieno a cominciare proprio da questa galleria di caratteri potenzialmente esplosivi.
Dal nerd (Caleb Landry Jones) che gestisce la pompa di benzina appassionato di horror e che stampa magliette di Nosferatu, sino a Zelda (Tilda Swinton), eccentrica proprietaria delle pompe funebri che va in giro armata di katana e alla quale il film riserva un colpo di scena che altrove sarebbe stato semplicemente geniale, per finire con i tre hipster venuti da fuori (tra di essi Selena Gomez) che sono un omaggio alle vittime sacrificali tipiche dell’horror e che qui non si capisce proprio che ci stiano a fare.
Uno spreco di attori/amici e di intuizioni che ha dello scandaloso.
Alla fine rimane solo l’idea cinematografica impersonata dall’agente Ronald (Adam Driver) che sin dall’inizio continua a ripetere che “andrà a finire male” sino a quando Bill Murray non gli chiede come faccia a saperlo e la risposta è che Jim gli ha fatto leggere tutto il copione.
Sennonché, oggi come oggi, non ci si può neanche più fidare dei copioni come dimostrerà la sorpresa riguardante proprio Zelda.
Ci sembra decisamente troppo poco per un autore come Jarmusch che stavolta fa un clamoroso buco nell’acqua.
EMILIANO BAGLIO