Femminicidio, punizione e vendetta per l'affronto di un abbandono
La cronaca quotidiana ci racconta di donne massacrate da uomini incapaci di accettare la fine di una relazione
La cronaca dei giorni passati ha dato notizia del terrificante omicidio-suicidio vantato e descritto in una lunga lettera da un ventenne di buona, anzi di ottima famiglia milanese, che si è scaraventato dall’ottavo piano di un elegante palazzo trascinando con sé la ragazza diciannovenne che lo aveva lasciato. Un salto mortale dopo averle mostrato tutti i colori dell’incubo. Purtroppo non è la prima volta che i media riportano impressionanti notizie sugli assassini di mogli (e figli) seguiti dal tentativo di suicidio del colpevole spesso non riuscito. L’ ultimo fatto criminoso di Milano si segnala tuttavia in modo ancora più sinistro per il supplemento di orrore che lo ha accompagnato.
Una copia terrificante di alcuni horror televisivi nei quali la fantasia degli autori non conosce limiti. In questo dannato caso, inoltre, il giovane omicida ha firmato in una confessione lucida, senza attenuanti la rivendicazione della propria azione sentita, questa è l’impressione, quasi come un atto di giustizia per l’affronto subìto con l’abbandono da parte della ragazza. Un gesto che potrebbe apparire per assurdo come “legittima difesa” per allontanare la propria immagine dall’offesa ricevuta.
Ricostruire l’autostima lacerata dalla passione resa ancora più impetuosa da enormità emozionali fino all’odio per una giovane donna troppo amata. Un sentimento oscuro salito dal profondo come una marea inarrestabile, fino al sanguinoso naufragio. La sofferenza per un abbandono è sicuramente tormentosa, il dolore è forte ma l’odio, il desiderio di una vendetta che passa addirittura per la propria vita, non possiedono nella realtà nulla di etico né di epico. Non corrispondono ad un sentimento d’amore sia pure dolorosamente trascorso. Un risentimento tanto feroce, confessato in tutte le sue gamme, descritto dipinto, affermato con forza sembrerebbe piuttosto appartenere ad un Io fragile e narcisista che non tollera affronti, che non accetta rifiuti. Una inclinazione formata nel tempo che è diventata segretamente abituale e vissuta interiormente con fermezza.
Un altro femminicidio.
La mattanza per cui le donne continuano a morire in tutto il mondo si realizza ormai in forme sempre più crude. Senza dubbio la cancellazione delle loro esistenze, messa in atto dal compagno, dal marito, dal fidanzato o perfino dall’amante occasionale sostituiti o minacciati di separazione, ha come bersaglio la libertà di scelta della donna, fa capo spesso alla valutazione di larghe fasce della mentalità maschile che ritiene colpevole il sottrarsi delle donne al cosiddetto ruolo naturale femminile, cioè quanto il dominio patriarcale esige per la propria sicurezza. E’quindi indispensabile esplorare la mente degli assassini di donne. Va visto l’elemento di dismisura tra causa ed effetto che affligge la parte del maschile responsabile di violenze, sintomo di insicurezza profonda e del pericoloso ritorno di principi che sembravano definitivamente superati dai tempi e dalla cultura.
Nonostante le numerose manifestazioni in tutto il mondo, le leggi specifiche che assegnano pene più gravi al reato odioso del femminicidio, un reato strettamente di genere che mina la libertà di scelta di una donna, la strage continua. Centottanta donne uccise in Italia lo scorso anno.
E si continua a parlare di omicidi passionali, di raptus e di amori sbagliati. In tempi passati la conclusione di un rapporto d’amore imprigionava i protagonisti in un periodo di dolore certamente non privo di rabbia e di pensieri di vendetta. Ma soprattutto era tempo di lutto e di valutazione anche di se stessi e delle eventuali responsabilità nella fine del rapporto. La rabbia che ai nostri giorni raggiunge i livelli estremi dell’accoltellamento, del soffocamento dello sgozzamento e dell’annegamento della donna non è un’emozione autonoma.
E’ il cancro della ragione, il frutto avvelenato del narcisismo senza limiti e della fragilità alimentate anche dalla società dei vincenti assoluti. E’ l’ipertrofia della personalità che esige uno smodato riconoscimento. Per cui ogni blocco alla propria affermazione vittoriosa costituisce un oltraggio da condannare, in un terrificante tribunale, dal proprio smisurato, infantile e fragilissimo Io.